A metà gennaio di quest’anno, mentre la pandemia causava giornalmente centinaia di morti e migliaia di contagi, l’Italia è sprofondata in una crisi politica improvvisa e apparentemente incomprensibile. Il risultato di questa crisi è stata la formazione di un nuovo governo, presieduto dalla rockstar della tecnocrazia europea Mario Draghi, già governatore della Banca d’Italia e presidente della Banca Centrale Europea, l’uomo del “Whatever it takes” (“Con ogni mezzo possibile”), colui che ha salvato l’Euro durante la crisi del 2012. Il governo Draghi si è insediato con un voto di fiducia ampissimo, e vede la partecipazione di quasi tutte le forze del Parlamento, come mai prima nella storia repubblicana.
Governi instabili
Da inizio anni Novanta fino a pochi anni fa, il sistema politico italiano era sempre stato sostanzialmente bipolare, basato sull’alternanza tra due poli, almeno sulla carta, opposti e antitetici: centrodestra berlusconiano da un lato, centrosinistra anti-berlusconiano dall’altro.
La situazione è cambiata con le elezioni nazionali del 2013, con l’entrata in scena del Movimento 5 Stelle (M5S): da quel momento, il Parlamento è diviso in tre gruppi – oltre al M5S, il centrosinistra guidato dal Partito Democratico (PD) e il centrodestra guidato da Forza Italia (FI) – con rappresentanza quasi equivalente, e ogni governo deve necessariamente basarsi sull’alleanza tra due di essi. Tali alleanze, anche a causa del progressivo inasprimento dei toni dello scontro politico, risultano sempre più difficili e, di conseguenza, i governi sono sempre più instabili e meno capaci di intervenire strutturalmente nel Paese.
La diciassettesima legislatura, iniziata appunto nel 2013 e terminata nel 2018, si è sviluppata in questa maniera, con il succedersi di tre governi di coalizione tra centrodestra e centrosinistra (con il M5S, primo partito per numero di voti, all’opposizione) che sono naufragati su dinamiche di potere (governo Letta), sull’impossibilità di realizzare riforme strutturali (governo Renzi) o che hanno vivacchiato limitandosi all’ordinaria amministrazione (governo Gentiloni).
Conte, il garante
Alle elezioni del 2018, FI, il partito di Silvio Berlusconi, perde per la prima volta la propria egemonia sul centrodestra, in favore della Lega guidata da Matteo Salvini, ormai stabilizzatasi su posizioni sovraniste e populiste e il cui consenso ormai si estende a tutta la penisola, centro-sud incluso. Il M5S è il primo partito, davanti al PD e, appunto, la Lega: in questa cornice, nasce il patto di governo tra M5S e Lega che darà luce al primo governo guidato da Giuseppe Conte.
Conte, che viene scelto come garante di questo accordo, giurista e professore di diritto privato dell’università di Firenze, già in orbita 5 Stelle, che l’avevano considerato in precedenza per alcuni incarichi di governo, è in quel momento una figura poco nota alle cronache e, soprattutto, esterna alle dinamiche dei palazzi della politica.
Il primo governo Conte dura poco più di un anno, fino ad inizio settembre 2019, affossato dalla voglia di Salvini di capitalizzare il consenso andando ad elezioni anticipate: questa crisi consolida, però, la figura di Conte che, dopo aver attaccato Salvini con un durissimo e ormai celebre discorso al Senato, riesce a formare un secondo governo, questa volta appoggiato da una coalizione tra M5S e i partiti di centrosinistra. Con questa mossa, Conte acquista centralità e consenso nella scena politica italiana, candidandosi al ruolo di collante di una ampia coalizione di centrosinistra che unisca – come da più parti auspicato almeno dal 2013 – il M5S e il PD.
Renzi, il rottamatore
La formazione di questo governo è fortemente caldeggiata dal segretario del PD Matteo Renzi che, però, pochi giorni dopo, decide di uscire dal PD per formare un nuovo partito, Italia Viva (IV), pur restando nella coalizione di governo: un anno e mezzo dopo, sarà proprio lo strappo di Renzi a far cadere il secondo governo Conte e a portare alla formazione del governo Draghi.
La storia politica di Renzi è strettamente legata a quella del PD, che nasce nel 2007 per unire le correnti più progressiste delle forze post Democrazia Cristiana (DC) e le correnti più moderate degli eredi del Partito Comunista (PCI), basandosi su un sistema di elezioni primarie per decidere le candidature, volendo così favorire la partecipazione dal basso. Proprio utilizzando lo strumento delle primarie, Renzi, che vanta una lunga militanza in varie formazioni del centro moderato, riesce a diventare sindaco di Firenze e a creare una sua corrente all’interno del partito, i “Rottamatori”, un gruppo di (relativamente) giovani militanti che si propone di attaccare frontalmente la dirigenza del PD e prenderne il posto.
Nel 2013, a seguito della vittoria del M5S alle elezioni, e della conseguente sconfitta del PD, Renzi diventa segretario del partito. Dieci mesi dopo, farà cadere il governo guidato da Enrico Letta, uno dei fondatori del PD, qualche giorno dopo averlo rassicurato con l’ormai celebre “Enrico, stai sereno!”, e ne prenderà il posto, formando un nuovo governo.
Nel 2016, Renzi tenta una riforma costituzionale che punti a snellire le attività parlamentari e a creare più stabilità, attirandosi le critiche di molti e importanti costituzionalisti. La riforma, su cui mette in gioco la sua carriera politica, dichiarando di volersi ritirare a vita privata in caso di sconfitta, viene, come da iter, sottoposta a referendum e, dal voto, viene bocciata senza appello: il governo Renzi, che pur non si ritirerà dalla politica, cade così dopo poco meno di tre anni.
Prima di dimettersi da segretario, dopo la disfatta delle elezioni del 2018, la peggior sconfitta di sempre della sinistra italiana, causa, nel 2017, la fuoriuscita dal partito di alcuni dei dirigenti storici del partito, Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema su tutti, che confluiranno poi nel gruppo parlamentare Liberi e Uguali (LEU), una delle forze che appoggerà il governo Conte II.
Una crisi anomala
Come abbiamo visto, a gennaio di quest’anno, in piena pandemia, Renzi decide di staccare la spina al secondo governo Conte e di ritirare i suoi ministri, aprendo la conseguente crisi politica. Conte non riesce a formare un nuovo governo e, per questo motivo, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è costretto a fare un discorso durissimo al Paese, simile al discorso pronunciato dieci anni prima dal suo predecessore Giorgio Napolitano, all’alba delle dimissioni dell’ultimo governo Berlusconi: Mattarella accusa la politica di non essere stata in grado di garantire stabilità al governo, ma allo stesso tempo rinuncia ad andare ad elezioni, sbocco naturale della crisi, perché troppo impellenti e delicate sono le sfide e le scadenze imposte dalla situazione internazionale e dalla crisi sanitaria. Così come Napolitano aveva deciso di chiamare Mario Monti, un’altra rockstar della tecnocrazia europea, per scavalcare una classe politica fallimentare e affidarsi ai tecnici, così Mattarella decide di affidare il “suo” governo di salvezza nazionale a Mario Draghi.
Questa crisi ha però alcune caratteristiche anomale. Innanzitutto, nonostante la pandemia, mancano le condizioni di emergenza strutturale che hanno sempre preceduto i governi tecnici o di unità nazionale: non c’è un atto di terrorismo, come nel 1979 dopo il rapimento del Presidente del Consiglio Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse o come nel 1993 dopo l’attacco stragista della Mafia siciliana allo Stato; non c’è nemmeno una crisi economica drammatica, come nel 2011, quando la salita dello spread aveva obbligato Berlusconi a dimettersi. Anzi, il governo Conte stato tra i promotori del Recovery Plan europeo e, in estate, era riuscito ad ottenere, insieme ai Paesi alleati, una grossa vittoria e un sostanziale aiuto economico dall’Europa; inoltre Conte, al momento delle dimissioni, risulta tra i leader politici con più consenso in Italia ed è stato salutato con un picchetto d’onore e un lungo applauso dei funzionari del parlamento, a dimostrazione delle buone relazioni costruite anche all’interno delle istituzioni.
Le critiche su cui Renzi ha basato questa manovra politica erano principalmente di due tipi: dubbi sulle modalità di gestione della pandemia e dell’emergenza derivata e timori di un possibile eccessivo accentramento di poteri nella figura di Conte, paventando un pericolo imminente per la democrazia. Draghi ha, però, fin dal discorso di insediamento, elogiato Conte e il governo precedente, riproponendosi (e i fatti per ora non sembrano smentirlo) di agire in continuità con esso; inoltre, Conte stesso ha invitato a votare la fiducia a Draghi, e molti dei ministri e sottosegretari del governo Conte sono confluiti nel nuovo esecutivo.
Come se non bastasse, durante la crisi di governo, Renzi è volato in Arabia Saudita per farsi intervistare (a pagamento) dal principe Muhammad bin Salman, proprio nei giorni in cui, con l’elezione del nuovo presidente americano Joe Biden, si riaccendevano i riflettori sul vergognoso omicidio del giornalista Jamal Kashoggi, dentro il consolato saudita a Istanbul. In questa intervista, a tratti delirante (e di cui non ha voluto rendere conto né ai giornalisti e né al parlamento), Renzi propone l’Arabia Saudita come culla di un nuovo Rinascimento, e confessa al principe saudita di invidiare il costo del lavoro nella sua nazione: che credibilità può avere, Renzi, quando parla di pericoli per la democrazia?
A vantaggio di chi?
Lo scrittore Michael Dobbs, autore della trilogia House of Cards, da cui è tratta l’omonima serie televisiva, ha voluto, nel 2014, mandare un messaggio a Matteo Renzi, fan delle sue opere: “Le mie storie sono solo intrattenimento – ha detto l’autore inglese – e non un manuale di istruzioni”. La carriera politica di Renzi, infatti, si è sviluppata all’insegna del tradimento e dell’ambiguità: nel 2010, ancora sindaco di Firenze, viene sorpreso dai giornalisti mentre va in visita privata alla residenza di Berlusconi ad Arcore; nel 2013, sono i voti della sua corrente a far fallire l’elezione a Presidente della Repubblica di Franco Marini prima e Romano Prodi poi, entrambi esponenti e candidati del suo partito; nel 2014, come abbiamo visto, fa cadere il governo di uno dei fondatori del suo partito, Enrico Letta; inoltre, durante i suoi anni da segretario del PD, in molti hanno abbandonato il partito, soprattutto nelle correnti più a sinistra, sia delle vecchie che delle nuove generazioni. Quando, nel 2018, Renzi esce a sua volta dal PD, lascia un partito disintegrato e al minimo di consenso della sua storia.
Risulta quindi difficile capire perché Renzi abbia deciso di far cadere il secondo governo Conte: nel merito, tutte le sue rivendicazioni sono, in un modo o nell’altro, scomparse un secondo dopo l’insediamento di Draghi – nonostante ci sia, come abbiamo visto, sostanziale continuità tra i due ultimi esecutivi. Al contempo, Renzi non ha però nemmeno guadagnato nulla politicamente: la sua presenza nel governo è diminuita, e così il suo peso all’interno delle scelte.
Al contrario, esultano i partiti di centrodestra: FI e la Lega rientrano nel governo e lo fanno – soprattutto per quanto riguarda la Lega – in maniera insperata, mentre Fratelli d’Italia (il terzo di questa coalizione e il più spostato a destra), si trova a rappresentare l’unica opposizione nel parlamento, con la possibilità di dare seguito alla continua crescita del proprio consenso.
Il PD è, invece, ricaduto nell’ennesima crisi di identità, con il segretario Nicola Zingaretti che si dimette accusando il proprio partito di pensare solo a incarichi e poltrone, e con il nuovo segretario, quell’Enrico Letta tradito da Renzi nel 2014, richiamato dall’esilio francese che si era auto-imposto per provare a rifondare il partito.
Anche il M5S sta vivendo, a seguito della crisi politica, un momento di cambiamento radicale: convinti dai colloqui privati con Draghi, che prometteva loro il nuovo super-ministero della transizione ecologica, i vertici del movimento (Beppe Grillo in testa) hanno deciso di votare sì alla fiducia, e hanno convinto il 60% degli utenti della loro piattaforma a fare lo stesso. Alla formazione del governo, però, tale super-ministero sì esiste ma non è a guida M5S, e appare nettamente depotenziato rispetto alle attese. Per questa ragione, molti parlamentari – alcuni anche storici (come Paola Lezzi) o che ricoprono ruoli importanti (Nicola Morra, presidente della commissione anti-mafia) – hanno comunque deciso di votare contro la fiducia a Draghi, e sono per questo stati espulsi dal movimento, unendosi alla ormai lunghissima lista di epurati che attraversa tutta la storia del M5S.
Nel momento in cui ha trovato un nuovo leader, Giuseppe Conte, che si candida a nuovo capo politico del movimento, il M5S perde completamente la propria identità, passando da forza di lotta che non si lega a nessuno, a forza di governo in coalizione con, letteralmente, tutti gli altri partiti, Berlusconi incluso.
Il prezzo della ricostruzione
Dei 750 miliardi che l’Europa mette a disposizione degli Stati membri con il Recovery Fund, quasi 200 spettano alla sola Italia: è ovvio che la possibilità di poter mettere le mani sul business della ricostruzione post-Covid faccia gola a molti ed è altresì ovvio che l’establishment economico e istituzionale italiano si senta più garantito da Draghi, uno di loro, che da Conte, capitato nelle stanze del potere quasi per caso.
Una delle principali critiche fatte a Conte, nell’ultimo anno, era infatti quella di aver distribuito gli aiuti per l’emergenza sanitaria “a pioggia”, privilegiando cioè la quantità sulla qualità, indirizzandoli su aiuti diretti alla popolazione piuttosto che su investimenti e grandi opere: chi è normalmente abituato, in Italia, a fare affari con lo Stato, su vari livelli, si è sentito poco rappresentato e garantito da Conte, che non è quindi stato considerato abbastanza affidabile per gestire i miliardi in arrivo.
La soluzione a questo problema, quindi, è quella che abbiamo raccontato in questo articolo: una ambigua manovra di palazzo per far cadere un governo in maniera pretestuosa e irresponsabile durante una pandemia; una classe politica autoreferenziale che ha perso contatto con la vita reale e che non è più in grado di risolvere alcun problema; le istituzioni, nazionali ed europee, che preferiscono scavalcare, ove possibile, i meccanismi democratici, visti quasi come un intralcio, per sostituirli con soluzioni tecniche e meglio gradite alle lobby economiche più influenti; un nuovo governo nettamente più sbilanciato verso destra, e senza una vera opposizione parlamentare; il mondo dei media che decide di esaltare i potenti e scrutinare i deboli, invece di fare il contrario.
E, purtroppo, tendenze autoritarie stanno emergendo in tutta Europa negli ultimi tempi, dalla Spagna all’Ungheria: pensando ai prossimi mesi, alla ricostruzione post-Covid e ai sacrifici che tutti dovremo ancora fare, non c’è nessun motivo per stare allegri.